L’altra sera prima della nanna con mio figlio Edoardo – 2 anni emezzo – chiacchieravamo guardando un libro di storie sulle diverse emozioni.
Lui nominava, guardando le figure, cose che fanno arrabbiare, poi cose che fanno intristire, eccetera.
Ad un certo punto dice : “Mamma, le rane mi fanno felicizzare”.
Al di là della iper-regolarità che i bimbi applicano al linguaggio in fase evolutiva, per cui da “chiudere” deriva che gli occhi sono “chiudati”, in realtà ho colto subito la profonda verità e la potenzialità di questo neologismo..
Felicità è un termine strano:
o passivo – essere felici – o riflessivo – questo mi rende felice – oppure rivolto ad altri -rendere felice qualcuno -.
Come se la felicità fosse un qualcosa che capita e su cui non abbiamo potere di fare accadere nulla.
Ma in effetti manca l’attributo attivo della felicità: l’atto -intenzionale o spontaneo- di creazione della felicità, non solo come stato ma come scelta agita attiva e personale.
Che in realtà invece psicologicamente esiste.
Arrabbiare e rabbia.
Sorprendere e sorpresa.
Intristire e tristezza.
Eccitare e eccitazione.
Spaventare e spavento.
FELICIZZARE, è l’atto di creare felicità:
in sè stessi, in qualcun altro o in un ambiente.