Il bisogno di affermazione di sé
“Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti”, era la visionaria affermazione di Andy Warhol nel lontano 1968. Non penso tuttavia che immaginasse la pericolosa china che sta prendendo oggi questa profezia.
I social hanno sicuramente reso moltissime informazioni accessibile ai più, la comunicazione fruibile a tutti e hanno reso più facile la connessione tra le persone. Ma purtroppo hanno anche generato fenomeni e dinamiche alquanto disfunzionali.
A partire dai casi più estremi di cyber bullismo, attualmente ancora sottovalutato per la sua pericolosità psicologica e sociale, fino al più consueto fenomeno dei leoni da tastiera, utenti del web che, differentemente da quanto farebbero di persona, scrivono in modo aggressivo, talora insultando, offendendo, screditando o minacciando altri utenti.
Ma ancora più frequente è il fenomeno di chi, senza conoscere appieno un argomento, senza approfondire il contesto di un determinato tema, e spesso senza rispettare differenti ruoli che rispecchiano competenze differenti, si sentono in diritto di esprimere opinioni, giudizi, di svalutare e denigrare semplicemente perché c’è un piccolo spazio bianco che lo rende possibile.
La grande disponibilità di contenuti e la facilità di reperirli ha determinato un abbassamento della soglia critica e di consapevolezza, una generale diminuzione del livello di approfondimento dei temi e un appiattimento dell’intelligenza emotiva. È un fenomeno che accade anche di persona, in presenza ma che è la rete ad aver innescato e a fomentare.
Quindi è abbastanza naturale che non si sappia più riconoscere una fonte valida di informazioni da una fonte generalista. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi.
Genitori che contestano annotazioni di insegnanti sul comportamento dei figli e che addirittura li minacciano o li aggrediscono perché si sono permessi di fare il proprio lavoro di educatori. Persone che contrastano pareri medici sulla base di informazioni sommarie reperite su Google. Utenti che su pagine web o siti di esperti autorevoli nel proprio settore lasciano commenti di svalutazione, solo perché ciò che viene espresso non è piacevole o comodo. Esseri umani, che nel quotidiano sono certamente persone adulte, adeguate e intelligenti, sui social perdono completamente il contatto con la realtà.
Come se il web fosse un supermercato: si passa velocemente da uno scaffale all’altro, si lancia un’occhiata superficiale a un prodotto, si prende in mano l’oggetto, gli si dà un assaggiata veloce, dopodiché se non è quello che ci si aspetta lo si getta via o addirittura lo si svaluta.
O peggio: è come se qualcuno passeggiando in una città e vedendo un edificio il cui colore non è di suo gusto, lo deturpasse, lasciandoci scritte squalificanti.
Si chiama vandalismo. E quello che avviene troppo spesso sui social è vandalismo, violenza pura e semplice.
Anche se faccio la psicoterapeuta da vent’anni e sono una specialista in alcuni settori, non smetto mai di formarmi e ci penso sempre più volte prima di esprimere un parere sulle pagine di altri in un ambito social: anche quando mi interfaccio ad altri esperti con cui posso non essere d’accordo, valuto molto attentamente se, cosa e quanto dire, in primis per il rispetto del ruolo altrui, in secundis perché non ho idea della moltitudine di persone che leggeranno le mie parole e di come in ciascuno possano risuonare.
Come siamo arrivati fino a qui?
Certamente un anno e mezzo di lockdown e di pandemia globale in cui la rete è stata il nostro unico terreno di scambio e comunicazione, permettendoci di rimanere connessi ha rinforzato queste dinamiche, che peraltro erano però già evidenti.
Il bisogno di affermazione di sé, uno dei fondamenti dell’essere umano, insieme con il bisogno di sentirsi realizzati, può essere un motore di questi comportamenti, ma la direzione non è quella corretta.
Se non sono appagato/a, se la mia vita non mi rappresenta, se ho delle frustrazioni che mi rendono intollerante e reattivo/a, non migliorerò la mia situazione spargendo il mio rancore ovunque ci sia qualcosa che non mi compiace.
L’odio, il fastidio crescono se nutriti, come ogni cosa.
Se invece cominciamo a mettere un breve momento di pausa tra la nostra reattività, la nostra irritazione e il fare immediatamente qualcosa, allora comincia a crearsi uno spazio di possibilità, di consapevolezza e di pace.
La tastiera, lo schermo, lo smartphone stanno de-umanizzando le relazioni e anche le nostre reazioni: il rimedio è ricordare che dall’atra parte c’è una persona come noi, che potrebbe essere ferita da ciò che scriviamo. La libertà di espressione deve essere accompagnata dalla consapevolezza e dall’empatia, da una comunicazione non violenta, dal rispetto e dalla gentilezza.
Forse quello che abbiamo dimenticato è che il social non è la realtà; che le persone non sono materiale di consumo; che le informazioni sono solo informazioni, mentre l’approfondimento è un’altra cosa; che le competenze hanno dietro una storia e un percorso per acquisirle; e che no, non siamo tutti competenti su ogni cosa.
Ci sono anche altre possibilità che spesso molti si dimenticano: possiamo anche dire “non ne so abbastanza”, possiamo anche dire “non sono d’accordo ma rispetto questa idea” e – incredibile ma vero – è anche possibile tacere ed eventualmente se quello non è un posto per noi, andare altrove.
Gautama il Buddha disse: “Prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile e infine se vale la pena di turbare il silenzio per ciò che vuoi dire”.
E la mia amata nonna Erminia – molto più umilmente – diceva:
Un bel tacer non fu mai scritto.
( articolo pubblicato per la prima volta su https://www.meer.com/it/68958-15-minuti-di-notorieta)